Siamo sicuri che il divorzio non sia un diritto fondamentale per la Convenzione EDU?

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E’ giusto rimanere vincolati al matrimonio anche quando, finito l’amore, uno dei due coniugi va a convivere con un nuovo partner con cui dà alla luce una figlia?

In altre parole: si può negare il divorzio a chi si è rifatto una nuova famiglia a causa di una legge dello Stato che, nel caso specifico, preclude al cittadino la possibilità di sciogliere il legame matrimoniale?

Secondo la recente sentenza (tuttavia non ancora definitiva) della Corte di Strasburgo – caso Babiarz v Poland del 10 gennaio 2017 – deve darsi risposta affermativa alle domande sopra poste, perché, in sintesi, il divorzio non è un diritto fondamentale riconosciuto dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU).

Il caso deciso dalla Corte Europea riguarda una giovane coppia di coniugi di una piccola cittadina della Polonia. Purtroppo, come talvolta accade, il marito (Mr Babiarz), invaghitosi di un’altra donna, aveva lasciato la moglie per andare a convivere con la nuova compagna, dalla quale poco dopo ebbe una figlia.

Mr Babiarz chiese alle autorità giudiziarie polacche di pronunciare il divorzio che, tuttavia, veniva respinto. In particolare, secondo la legge polacca e l’interpretazione resa dai Giudici, non poteva addivenirsi allo scioglimento del matrimonio perché Mr Babiarz versava in colpa per aver violato l’obbligo di fedeltà ed altresì perché la moglie, oppostasi al divorzio, aveva manifestato la volontà di riconciliarsi con il marito.

Mr Babiarz, rimaneva così unito dall’originario vincolo matrimoniale, nonostante fosse pacifica la rottura della relazione, venendogli altresì impedito di sposare la nuova compagna e di legittimare la propria famiglia di fatto, da cui era nata la figlia.

Esauriti vanamente i rimedi interni, il giovane polacco adiva la Corte di Strasburgo, invocando la violazione, da parte del proprio Stato, degli articoli 8 e 12, che prevedono, nell’ordine, il diritto al rispetto della vita privata e familiare e il diritto al matrimonio.

La Corte Europea si pronuncia tuttavia negativamente, appiattendosi sull’affermazione, francamente scontata, che la Convenzione Europea non prevede un diritto al divorzio (« 49. The Court has already held that neither Article 12 nor 8 of the Convention can be interpreted as conferring on individuals a right to divorce »).

La decisione lascia decisamente insoddisfatti i lettori – almeno i sottoscritti – e, sicuramente, Mr Babiarz,  costretto suo malgrado a rimanere (solo formalmente) legato ad una moglie che non ama più e ad accettare la decisione di uno Stato che interferisce sulle scelte e libertà individuali, tra le quali primeggia sicuramente quella di decidere con chi fare una famiglia, come letteralmente delineata dall’art. 12 della Convenzione EDU. (Art. 12 Convenzione: Diritto al matrimonio. A partire dall’età minima per contrarre matrimonio, l’uomo e la donna hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali che regolano l’esercizio di tale diritto).

Ulteriore argomento speso dalla Corte per respingere il ricorso riguarda il margine di apprezzamento di cui gli Stati godono nella specifica materia (« In the area of framing their divorce laws and implementing them in concrete cases, the Contracting Parties enjoy a wide margin of appreciation in determining the steps to be taken to ensure compliance with the Convention and to reconcile the competing personal interests at stake »), unitamente al richiamo di un lontano precedente (« see Johnston and Others v. Ireland, 18 December 1986, § 52, Series A no. 112 ») ed ai lavori preparatori (« The Court has already held that neither Article 12 nor 8 of the Convention can be interpreted as conferring on individuals a right to divorce (see Johnston and Others, cited above, § 57). Moreover, the travaux préparatoires of the Convention indicate clearly that it was an intention of the Contracting Parties to expressly exclude such right from the scope of the Convention »).

La parte più interessante dell’articolata pronuncia non è, però, nella sentenza, ma nelle contrarie opinioni dei due Giudici dissenzienti. E’ infatti un elemento molto apprezzabile del sistema convenzionale la possibilità per i giudici dissidenti rispetto al dispositivo della sentenza di includere al testo della sentenza le proprie opinioni separate, dissenzienti o concordanti. Tale pratica è indice del fatto che oltre al diritto statuito mediante sentenza, esiste un diritto “in potenza”, cioè possibile, ma non (ancora) cristallizzato in un dispositivo.

Ciò è ancor più pregnante nel caso di specie, ove la materia oggetto dell’analisi del precedente è molto controversa e plausibilmente foriera di futuri ripensamenti.

Tra le suddette opinioni c’è la « dissenting opinion » del Presidente del Collegio, András Sajó, secondo cui « the case presents first and foremost a violation of the Article 8 right to private and family life, but also that the refusal to grant a divorce, being a precondition to remarriage, inevitably violates the applicants right to marry under Article 12 ».

Viene sottolineato, in particolare, come nella fattispecie non vi siano diritti (della Convenzione) in conflitto, perché l’aspirazione della moglie del ricorrente a mantenere il legame coniugale contro la sua volontà, non può certo qualificarsi « diritto », ma mero interesse di fatto, che non potrà certo prevalere sul diritto del marito di essere libero di sciogliere il vincolo matrimoniale e di rifarsi una famiglia (« The claim to keep someone as spouse is not of the same weight as the autonomy-based demand of the other person to be free, and it is asymmetrical because it imposes an undue restriction, whereas leaving is a right accorded to both parties equally »).

La decisione della Corte risulta pertanto viziata da un arbitrario moralismo perché fonda il rifiuto del divorzio chiesto dal ricorrente (ritenuto colpevole del fallimento del matrimonio) in nome di un presunto diritto della moglie incolpevole, con l’aggravante che, oltre a precludere il libero esercizio dello jus familiae di Mr Babiarz, sacrifica altresì, ingiustamente, i diritti della sua nuova compagna e della figlia al rispetto della vita privata e familiare: « in this particular case, by refusing the applicant’s divorce in the name of the alleged right of R., the State is unduly affecting not only the applicant’s right to private and family life, but also the rights of A.H. and M. to family life. These rights, particularly those of M., were considered neither by the judgment nor by the respondent Government ».

Infine, nell’opinione dissenziente viene rimarcato l’ulteriore equivoco da cui è affetta la decisione della Collegio da lui presieduto, che « riflette l’idea che non essere sposati (vuoi per non essere in grado di ottenere il divorzio, vuoi perché si ama una persona che non può ottenere il divorzio) non interferisca con il pieno godimento della vita della coppia in quanto essi possono comunque convivere ». Si tratta all’evidenza di un’argomentazione fallace, perché una cosa è la famiglia di fatto ed altra cosa è la famiglia di diritto, consacrata dal matrimonio, sia sul piano sociale che su quello giuridico (« …the respondent Government and the Court should have shown that living in partnership is socially and legally equivalent to living in marriage in Polish society. The evidence, however, points in the opposite direction, both legally and socially. Legally, cohabitation in Poland does not grant any rights or obligations to the cohabiting partners »).

A ben vedere la sentenza appare ancorata ad un’interpretazione rigida della Convenzione che suona stretta, soprattutto alla luce dell’idea consolidata in giurisprudenza  che la Convenzione EDU costituisca un “living instrument”, ossia uno strumento evolutivo, da interpretarsi secondo le condizioni del tempo presente.

Nel caso in esame, la Corte menziona fugacemente questo concetto (para. 49), senza fornire però approfondire le ragioni per cui essa ritenga che la soluzione adottata sia quella che meglio si attagli alle tendenze socio-culturali emerse nel tempo presente in tema di diritto al rispetto della vita privata e familiare e il diritto al matrimonio.

Al contrario, la Corte ha riconosciuto di un ampio margine di apprezzamento in capo agli stati nazionali nel disciplinare il divorzio, assestandosi (acriticamente?) su una scelta operata ben trent’anni prima (nella summenzionata sentenza Johnston and Others), evidentemente alla luce di una realtà socio-culturale ben diversa dalla presente. Si noti peraltro che in altre decisioni la Corte ha definito quale “stretto” il margine di apprezzamento degli stati in casi in cui fosse in gioco un aspetto fondamentale dell’esistenza e dell’identità dell’individuo, come può ragionevolmente considerarsi lo stato di coniugio. (Mennesson c. Francia, 26 giugno 2014 e A.B. e C. c. Irlanda, 16 dicembre 2010).

La Corte sembra inoltre aver in questo caso adottato un diverso approccio all’interpretazione evolutiva del diritto della Convenzione rispetto a quanto operato nel noto procedimento Oliari c. Italia, all’esito del quale è stata riscontrata la violazione dell’art. 8 CEDU da parte dello Stato Italiano per l’aver omesso di adottare una legislazione diretta al riconoscimento e alla protezione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso (sentenza del 21 luglio 2015).

Nel caso citato la Corte aveva infatti riscontrato l’esistenza di un conflitto tra la realtà sociale dei concorrenti, i quali intrattenevano una relazione solida e duratura, e la legge, che impediva loro un riconoscimento giuridico di tale rapporto familiare. I giudici di Strasburgo avevano ritenuto  che il valore degli allora esistenti contratti di convivenza e dei registri delle unioni civili fosse puramente simbolico, pertanto inidoneo a garantire un riconoscimento ed unione effettiva alle coppie (para. 170-173). Stupisce quindi, come sottolineato nell’opinione dissenziente del giudice Sajo’, che nel caso in esame la Corte abbia ritenuto lo stato di fatto di convivenza tra i ricorrenti sostanzialmente equivalente alla condizione di coniugio legalmente riconosciuta, ed idoneo a soddisfare i “core needs”, le esigenze fondamentali della coppia. Ciò senza peraltro considerare il fatto che in Polonia la convivenza è socialmente poco tollerata, rispetto a quanto accade in altri Stati europei.

In conclusione, ciò che più lascia perplessi non è tanto il mancato riconoscimento di un “diritto al divorzio” da parte della Corte, quanto il suo considerare legittima una situazione al limite del paradosso nella quale il cittadino polacco si trova nell’impossibilità di sciogliere il legame matrimoniale, ormai puramente formale, con una moglie che non ama più e di sposare la compagna convivente e madre di sua figlia.

E’, o non è, dunque questa un’interferenza dello Stato nella vita privata del cittadino?

Avv. Massimo Dragone                                                               Dott.ssa Stefania Carrer

Potete leggere la sentenza in inglese qui

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