MC + altri c. Italia, n. 56376/2011 sentenza Corte EDU 3 settembre 2013

In vista della partecipazione dell’Avv. Massimo Dragone al convegno di data odierna nell’ambito del ciclo di incontri dedicati al tema: “LA TUTELA DEI DIRITTI UMANI AVANTI LA CORTE EDU: LE RICADUTE NELL’ ORDINAMENTO ITALIANO E IL RUOLO DELL’AVVOCATO CIVILISTA”, pubblichiamo la sentenza Corte EDU 3 settembre 2013 MC + altri c. Italia, n. 56376/2011, in versione originale francese ed italiana (traduzione a cura del Ministero della Giustizia), originata dal ricorso dallo stesso presentato nell’interesse di 162 ricorrenti.

Il caso: riguardava un elevato numero di ricorrenti, in tutto 162, accomunati dalla caratteristica di essere gravemente danneggiati alla salute a causa del contagio con sangue infetto.

Come illustrato nel ricorso presentato alla Corte nel 2011, in presenza di certi presupposti le persone danneggiate in modo irreversibile da trasfusioni ed emoderivati infetti hanno diritto di ottenere dal Ministero della Salute un indennizzo vitalizio, previsto dalla legge 210 del 1992.

All’epoca gli avvocati che si occupavano di questa materia si resero conto che l’indennizzo non veniva annualmente rivalutato, se non in misura minima, talché nel corso degli anni l’importo si era progressivamente svalutato.

Per questo migliaia di danneggiati da sangue infetto avevano promosso cause civili al giudice del lavoro al fine di ottenere la rivalutazione per intero dell’indennizzo.

Tale rivalutazione veniva quasi sempre riconosciuta dal giudice, in forza di un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 15894/20105 e Cass. n. 18109/2007). L’effetto pratico era che l’indennizzo, da una somma di circa 550 euro mensili, aumentava a 750 euro circa.

Tuttavia alla fine del 2009 la Cassazione cambiava orientamento, interpretando la normativa in senso negativo per i danneggiati (Cass. n. 21703/2009 e Cass. n. 22112/2009). Peraltro, la prevalente giurisprudenza di merito continuava a privilegiare la tesi favorevole ai ricorrenti, in linea con la giurisprudenza di legittimità precedente, come allegato e documentato nel ricorso alla CEDU.

A maggio 2010 il Governo emanava il decreto-legge n. 78/2010, che poi veniva convertito nella legge n. 122/2010, con cui veniva bloccata la rivalutabilità dell’indennizzo, attraverso una norma di interpretazione autentica retroattiva che incideva anche sui processi in corso e poneva nel nulla persino le sentenze passate in giudicato, dalla data di emissione del decreto (art 1 commi 13 e 14 del citato DL n. 78/2010).

– La violazioni accertate dalla Corte: la Corte EDU ha accolto il ricorso condannando l’Italia per la violazione degli artt 6, 1 Prot. 1 e 14 Convenzione.

– Protezione del diritto alla vita, art. 2 Convenzione: inquadramento violazione nelle altre norme della Convenzione

Veniva innanzitutto contestata la violazione dell’art. 2 della Convenzione che protegge il diritto alla vita. In proposito veniva rimarcata la gravità dei danni alla salute da cui erano affetti i ricorrenti, colpiti da patologie virali tendenzialmente evolutive e letali.

Le ridotte prospettive di sopravvivenza dei ricorrenti veniva dimostrata sia dai certificati medici di ciascuno, che da una perizia medico-legale con cui si metteva a confronto la durata vita media delle persone colpite da infezioni post-trasfusionali con la durata della vita media in generale in Italia. Va aggiunto che, nel corso del giudizio davanti alla Corte (durato circa 3 anni) morirono 6 persone a causa delle patologie post-trasfusionali ed altre si aggravarono, alcuni riportando nel frattempo cirrosi epatica o tumore al fegato. Pertanto, la somma versata come indennizzo, essendo svalutata alla data del 1992, era diventata irrisoria in rapporto ai danni alla salute dei ricorrenti.

La Corte, ricordando di essere “libera di qualificare giuridicamente i fatti” riteneva tuttavia di inquadrare la vicenda nell’ambito delle altre norme della Convenzione, che riteneva violate.

Violazione dell’art. 6 della Convenzione (equo processo).

Nel ricorso si riteneva violato il principio dell’equo processo (art. 6 &1 Convenzione)[1], unitamente al principio di effettività della tutela (previsto dall’art. 13 Convenzione). 

In sintesi, si lamentava che lo Stato, che oltretutto era “parte” dei giudizi civili in questione, con una norma interna ad hoc si era sostanzialmente fatto giustizia da sé, ponendo nel nulla quanto deciso dai giudici nei processi definiti e vanificando i giudizi in corso, il cui esito veniva irrimediabilmente compromesso dalla norma interpretativa introdotta ex post.

Si riteneva pertanto violato il principio della separazione dei poteri e quello della parità delle armi, fondamentali per lo Stato di diritto.

Tra l’altro si era evidenziato che un gruppo di ricorrenti era in procinto di promuovere la causa civile, ma vi aveva rinunciato in considerazione dell’entrata in vigore del decreto-legge citato che precludeva sul nascere l’esito del processo, sacrificando così le loro legittime aspettative.

La Corte in relazione a quest’ultimo gruppo di ricorrenti dichiara l’irricevibilità del ricorso, ritenendo inapplicabile l’art. 6 della Convenzione a costoro che non avevano proposto ricorso interno.

Ritenuta ricevibile e fondata nel merito la doglianza per tutti gli altri ricorrenti, la Corte EDU condanna l’Italia per la violazione del principio dell’equo processo. In particolare, la Corte ravvisa l’illegittimità della “ingerenza esercitata nel caso di specie dal potere legislativo nell’amministrazione della giustizia allo scopo di influenzare l’esito della lite”, anche perché “non sussisteva alcun motivo di imperioso interesse generale”. La Corte inoltre riafferma il principio di preminenza del diritto, enunciato nel Preambolo della Convenzione e il correlativo fondamentale principio di certezza del diritto che veniva invece vulnerato dalla norma di interpretazione autentica retroattiva che interferiva arbitrariamente nel dibattito giurisprudenziale.

– La sentenza della Corte Costituzionale n. 293/2011

Nel corso del giudizio alla CEDU interveniva nel frattempo la sentenza n. 293/2011 della Corte Costituzionale che dichiarava l’illegittimità costituzionale delle norme del decreto legge contestate, per violazione del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.).

Il Governo italiano, vista l’intervenuta incostituzionalità della norma contestata, eccepiva il venir meno dell’interesse dei ricorrenti, ai sensi dell’art. 37 § 1 della Convenzione.

La Corte tuttavia respingeva tale eccezione, aderendo alla tesi dei ricorrenti, secondo i quali, nonostante l’intervento della sentenza della Corte Costituzionale, l’amministrazione non aveva provveduto a ripristinare i pagamenti, lasciando tutto inalterato. Ciò era dimostrato anche dagli estratti conto che i 162 ricorrenti avevano depositato in causa e da cui risultava che l’importo era rimasto fermo ai 550 euro mensili.

Sotto questo profilo risulta evidente la differente impostazione della Corte Europea rispetto alla Corte Costituzionale: infatti mentre per quest’ultima non rileva l’applicazione della norma, ma solo la compatibilità della stessa o meno con la Costituzione, per la Corte di Strasburgo, invece, quello che conta è l’effettività della tutela in senso sostanziale, ivi compresa la fase esecutiva.

Quindi anche se la norma incriminata era stata posta nel nulla dalla Corte Costituzionale, per la Corte EDU permane ugualmente la violazione del diritto fondamentale a causa della prassi applicativa posta in essere nel caso concreto.

Per tale motivo la Corte respinge l’eccezione del Governo.

– Violazione degli artt. 14 e all’art. 1 Protocollo 1[2] allegato alla Convenzione.

La Corte inoltre accoglie le ulteriori 2 doglianze: la violazione dell’art. 1 del Protocollo 1 che tutela il diritto di proprietà e la violazione del principio di non discriminazione (art. 14 Convenzione), con riferimento a tutti i ricorrenti, anche quelli che non avevano proposto alcun ricorso interno per i quali, come detto in precedenza, era stata dichiarata l’irricevibilità della doglianza basata sull’art. 6 Convenzione.

In relazione all’art. 1 Prot. 1: la Corte aderisce alla tesi dei ricorrenti, fondata sulla giurisprudenza della CEDU, in virtù della quale anche i diritti di credito rientrano nella nozione di beni.

La Corte aderisce alla tesi dei ricorrenti i quali, producendo a sostegno una perizia contabile allegata al ricorso, lamentavano di essere stati privati di un importo di circa 200 euro mensili, considerevole in rapporto al totale di euro 750 mensili e in ragione della finalità assistenziale dell’indennizzo.

La Corte precisa anche che l’indennizzo è una misura assistenziale che mira a coprire i costi dei trattamenti sanitari e di assistenza dei ricorrenti e che “l’aspettativa riguardante la possibilità di sopravvivenza e di guarigione degli stessi è strettamente legata al beneficio degli indennizzi” vitalizi e quindi al pagamento di un importo che mantenga nel tempo un valore costante e che non può divenire irrisorio in ragione della mancata rivalutazione monetaria.

Pertanto, secondo la propria giurisprudenza, la Corte EDU richiama la nozione di “aspettativa legittima” vantata dai ricorrenti in ordine alla possibilità di ottenere il pagamento di tali somme. La loro legittima aspettativa veniva invece frustrata dal decreto-legge in questione.

Viene pertanto ravvisata la violazione dell’art. 1 Prot. 1 della Convenzione a danno di tutti i ricorrenti.

Art. 14 (divieto di discriminazione) unitamente all’art. 1 Prot. 1 Convenzione

Infine la Corte condanna l’Italia anche per la violazione dell’Art. 14 Convenzione (divieto di discriminazione) in combinato disposto con l’art. 1 Protocollo 1 sulla base delle seguenti considerazioni:

  • si è determinata discriminazione tra diverse categorie di soggetti, perché a parità di situazioni sono stati trattati differentemente, precisamente:
  • coloro i quali avevano ottenuto la rivalutazione integrale dell’indennizzo, seppure fino al 31 maggio 2010 (soggetti che avevano ottenuto una sentenza favorevole passata in giudicato) e chi invece aveva il processo in corso (nessuna rivalutazione);
  • ed ancora vi era irragionevole discriminazione tra i soggetti pagati dalla Regione Veneto coloro i quali venivano pagati dal Ministero delle finanze (domande presentate prima del 2000) perché i primi ricevevano l’indennizzo svalutato, mentre i secondi non avevano subito alcuna decurtazione.

Importi differenti in assenza di una ragionevole giustificazione, con conseguente violazione degli artt. 1 Prot.1 e 14 Convenzione.

– Condanna dell’Italia e misure interne adottate con la sentenza pilota –

All’esito del giudizio la Corte accoglieva il nostro ricorso condannando l’Italia per la violazione degli articoli 6, 1 Prot. 1 e 14 Convenzione.

Come detto in precedenza, la Corte, ravvisando un “problema strutturale all’origine delle violazioni”, “riguardante migliaia di persone che hanno presentato ricorsi interni” ha seguito la procedura della “sentenza pilota”.

Pertanto, con la sentenza “pilota” la Corte ha invitato l’Italia ad individuare un rimedio interno effettivo, nell’ambito del margine di apprezzamento di cui godono gli Stati, “sotto il controllo del Comitato dei Ministri” ai sensi dell’art. 46 della Convenzione.

Va detto che il problema “interno” è stato risolto grazie alla sentenza della Corte di Strasburgo, non solo per i ricorrenti, per i quali è stata ripristinata o comunque riconosciuta la rivalutazione integrale dei loro indennizzi, ma anche per tutte le decine di migliaia di persone che percepiscono in Italia l’indennizzo per danni da trasfusione.

L’adeguamento alla sentenza di Strasburgo, in questo caso, si è ottenuta grazie ad apposita norma finanziaria del Governo italiano che, sotto pressione del Comitato dei Ministri, nel giro di 3-4 anni ha ripristinato tutte le situazioni, con rivalutazione integrale di tutti gli indennizzi.

Un’ ultima considerazione: senza questa sentenza della Corte Europea: i danneggiati da trasfusione non avrebbero ottenuto in tempi rapidi, come invece avvenuto, il pagamento degli arretrati e il ripristino della rivalutazione futura. Infatti, la sentenza della Corte Costituzionale ha il ben più limitato effetto di annullare la norma in contrasto con la Costituzione, ma non ha alcun effetto restitutorio, occorrendo allo scopo che ciascun danneggiato si attivi proponendo apposito giudizio, rimanendo comunque soggetto alle varie preclusioni, tra cui la prescrizione decennale che invece nella fattispecie non è stata opposta dal Governo che ha rivalutato gli indennizzi dal giorno della normativa (dal 1996).

Avv. Massimo Dragone


[1] Articolo 6 – Diritto ad un processo equo.

1. Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, ….ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale deciderà sia delle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile, ….

[2] Art.1 Prot. 1 Protezione della proprietà

Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.

Le disposizioni Precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di mettere in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale …

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