Quello che le mimose non dicono: Italia bocciata sulla lotta alla violenza contro le donne

no hate speech

Nel giorno in cui più degli altri si celebra la donna,  mettere il dito nella piaghe del nostro Paese quanto a discriminazione sessuale e lotta alla violenza di genere non ha tanto l’intento di smorzare il valore delle conquiste sociali, economiche e politiche ottenute dalle donne nel mondo, quanto quello di rendere la commemorazione più consapevole e partecipata.

Appare pertanto doveroso ricordare che in una recentissima sentenza la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Corte EDU, Sezione Prima, Sentenza Talpis c. Italia, 2 marzo 2017, ric. n. 41237/14) ha condannato l’Italia per violazione degli articoli della Convenzione  2, Diritto alla vita, 3 Proibizione della tortura e 14, Divieto di discriminazione (in combinato disposto con i primi due). Nel caso che ha dato origine a tale pronuncia, l’appello rivolto alle autorità statali da una donna perseguitata dalle violenze e dalle minacce del marito rimaneva inascoltato, con esiti drammatici.

La ricorrente, vittima da anni dell’atteggiamento violento del marito e allontanatasi per timore dal domicilio di famiglia, nel settembre 2012 si risolveva a sporgere denuncia nei confronti del coniuge a seguito di due episodi di aggressione particolarmente gravi avvenuti nei mesi precedenti e già verbalizzati dalle forze dell’ordine. Nell’intento di proteggere l’incolumità propria e quella dei suoi due figli, la donna richiedeva la predisposizione di misure cautelari e l’allontanamento del marito.

A tale denuncia seguiva un lungo periodo di inerzia delle autorità preposte alle investigazioni, periodo in cui la donna continuava a subire telefonicamente le vessazioni e intimidazioni del marito che voleva indurla a ritirare le accuse. Solo sette mesi più tardi, la signora Talpis veniva sentita dalla polizia giudiziaria ma, intimorita dalle possibili reazioni del marito, ritrattava le proprie dichiarazioni edulcorando la gravità dei fatti. Il procedimento veniva archiviato quanto ai capi d’accusa relativi a maltrattamenti familiari (art. 572 c.p.) e minacce, mentre proseguiva  per l’accusa di lesioni personali (art. 582 c.p.).

Nel novembre 2013 l’uomo riceva la notifica del suo rinvio a giudizio innanzi al Giudice di Pace. A distanza di pochi giorni si consumava l’ultimo e fatale episodio di aggressione, che culminava con la morte per accoltellamento del figlio corso in protezione della madre e con gravi ferite al petto per quest’ultima.

La Corte EDU ha accolto il ricorso della signora Talpis, ribadendo l’obbligo positivo per  Stato, dettato dall’art. 2 della Convenzione, di adottare tutte le misure necessarie alla protezione della vita delle persone entro la propria giurisdizione. E’ noto che negli ultimi anni l’Italia ha introdotto nell’ordinamento degli strumenti legislativi volti alla repressione delle violenze sessuali e domestiche, tra cui il reato di “atti persecutori” inserito nel codice penale con l. 38/2009 e le aggravanti per il cd. femminicidio, previste ai sensi della l. 119/2013. Sempre nel 2013, il Parlamento italiano ha approvato la ratifica della “Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica”, la cosiddetta Convenzione di Istanbul.

Nel caso di specie la Corte ha  tuttavia rilevato che le autorità nazionali, non avendo agito rapidamente a seguito del deposito della denuncia, avevano di fatto privato lo strumento processuale  di ogni efficacia, creando un contesto di impunità favorevole alla ripetizione da parte del marito degli atti di violenza nei confronti di sua moglie e della sua famiglia. Esse inoltre non avevano valutato correttamente la situazione di pericolo reale e imminente in cui versavano la donna ed i figli, omettendo così di adottare quelle misure che ne avrebbero potuto evitare la realizzazione.

E’ altresì importante sottolineare che i giudici di Strasburgo hanno affermato che le violenze inflitte all’interessata, che si sono tradotte in lesioni corporali e in pressioni psicologiche, sono sufficientemente gravi per essere qualificate alla stregua di trattamenti inumani o degradanti ai sensi dell’articolo 3 della Convenzione. Stante il dovere dello Stato di agire con prontezza ed efficienza a tutela delle persone vulnerabili, nulla può spiegare, a detta della Corte, la passività delle istituzioni nel caso di specie, protrattasi per un periodo di ben sette mesi. Allo stesso modo, non è giustificabile il fatto che il procedimento penale per lesioni corporali aggravate avviato a seguito della denuncia della ricorrente sia durato tre anni, per concludersi solo l’1 ottobre 2015, quando un omicidio (a danno del figlio) e un tentato omicidio (a danno della ricorrente) si erano ormai consumati.

Non meno rilevanti sono le osservazioni svolte sulla violazione dell’art. 14 CEDU, ancor più significative se lette nel contesto commemorativo dell’8 marzo. Alla luce delle riscontrate inefficienze e lentezze operative delle autorità, la Corte ha affermato che tali condotte non consistono solo in una semplice mancanza o ritardo nel trattare i fatti di violenza domestica, ma sono sintomatiche di una radicata (ed incettabile) tolleranza socio-culturale nei confronti di tali fatti, che riflette un’attitudine discriminatoria nei confronti della vittima, in quanto donna. A suffragio di queste allegazioni, sia la ricorrente che i giudici hanno riportato i risultati delle indagini condotte a livello nazionale ed internazionale, che evidenziano l’allarmante situazione in Italia quanto a discriminazione di genere (in particolare le statistiche ISTAT e le conclusioni del Relatore Speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne, così come quelle del Comitato per l’eliminazione della discriminazione contro le donne delle Nazioni Unite (CEDAW) ).

La vicenda oggetto di questa pronuncia sovranazionale è emblematica del generale contesto di impunità nel quale si consumano crimini generati da situazioni di illegittima  discriminazione, la maggior parte dei quali sconosciuti alle aule dei tribunali.

Oltre ad una doverosa presa di coscienza, sorge spontaneo chiedersi come poter agire concretamente per sradicare questa mentalità, tanto diffusa quanto pericolosa.

Nella convinzione che il contributo del cittadino sia fondamentale per un buon funzionamento delle istituzioni, il nostro studio accoglie l’invito diramato dall’Ordine degli Avvocati di Venezia ad aderire alla campagna di sensibilizzazione “No Hate Speech Movement”, avviata dal Consiglio d’Europa per combattere il razzismo e la discriminazione nelle loro espressioni online. E’ infatti tristemente noto che nell’epoca della comunicazione “social”,  violenza e sessismo scorrono su schermi e tastiere quasi indisturbate. Come riportato nel comunicato dell’Ordine degli Avvocati di Venezia, è possibile arginare questo fenomeno compiendo semplici gesti, quali: “esibire sui profili social il logo dell’iniziativa, contrassegnare con l’etichetta ‘Questo è sessista’ i post recanti materiali o commenti che contengano discorsi d’odio a sfondo sessista, anche utilizzando stereotipi di genere; intervenire nei post sessisti fornendo un’informazione corretta anche attraverso esempi che promuovono la parità di genere.”.

Dott.ssa Stefania Carrer

A nome di tutte le donne dello studio: Avv. Barbara Cestaro, Avv. Marta Guarda e Avv. Silvia Marzaro, Dott.ssa Marta Manzoni

e con il sostegno dei colleghi: Avvocati Massimo Dragone e Roberto Loffredo, Dottori Stefano Trevisan e Giovanni Fassina, Dott. Massimo Simeone

Potete trovare il testo della sentenza in lingua francese qui

Trovate parte del testo della sentenza riassunto e tradotto liberamente in italiano qui: Talpis c. Italia riassunto e traduzione

A questo link maggiori informazioni sulla campagna “No Hate Speech Movement”.

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